La ripetitività dei giorni passati al chiuso nelle nostre case. Le relazioni forzate attraverso i social. Ma anche un nuovo modo di vedere la natura e la società. Carlo Sini spiega le lezioni della pandemia
DI ANNA BONALUME
Carlo Sini, 86 anni, è uno dei più grandi filosofi italiani. Per trent’anni ha insegnato Filosofia teoretica all’Università degli Studi di Milano. Accademico dei lincei, specialista di Filosofia ermeneutica, fenomenologia e semiotica, Sini è stato tra i primi a introdurre in Italia l’opera del pragmatista americano Charles Peirce.
La sua proposta teoretica si è concentrata sul tema della scrittura e sulla centralità dell’alfabeto greco come forma logica del pensiero occidentale; i suoi recenti studi si occupano dei problemi politici ed economici del vivere in comune. A gennaio ha pubblicato per Jaca Book con Gabriele Pasqui “Lo spazio urbano e i destini dell’abitare”, un libro sulla questione urbanistica e il destino della vita collettiva nelle città. Oggi si occupa, tra le altre cose, di formazione filosofica presso Mechrì, laboratorio di filosofia e cultura a Milano.
Professore, secondo lei come è cambiato e come sta cambiando il nostro modo di abitare lo spazio?
«La drastica riduzione dello spazio quotidiano disponibile che abbiamo sperimentato per diverse settimane ha prodotto importanti conseguenze. Molti si sono accorti con chiarezza di come la loro condizione di vita “normale” recasse con sé conseguenze sulle quali non avevano avuto né il tempo né il modo di riflettere prima. Per esempio, la consapevole osservazione della ripetitività degli spazi disponibili e realmente abitati. Una ripetitività soffocante alla quale siamo legati come a una catena; e così per alcuni, suppongo, l’obbligo di restare a casa ha preso, in qualche momento, l’aspetto di una vacanza. Ovviamente, per qualche momento, perché poi ben altro si manifestava. E poi anche la consapevolezza per la quale i nostri spazi di vita sono per molti, più che ripetitivi, piuttosto testimoni di una continua corsa e rincorsa senza requie, sicché gli spazi stessi scompaiono di fatto dalla vista: li attraversiamo ogni giorno e non li guardiamo davvero mai».
L’imprescindibile presenza dei social network nelle nostre vite quali strumenti di relazione con l’Altro ha cambiato il nostro modo di vivere gli incontri e di relazionarci alla società. Il modo di incontrare l’Altro subirà un nuovo sconvolgimento durante le prossime fasi di convivenza con il virus?
«Gli strumenti comunicativi sono da sempre costitutivi della relazione con l’altro, perché gli umani, contrariamente a ciò che alcuni ritengono, sono esseri “tecnici” da sempre e per essenza. Abbiamo cominciato a dialogare con il corpo e con i gesti, come alcune specie animali a noi vicine, e abbiamo continuato con la voce e la parola; poi con la scrittura, la stampa, il telegrafo, il telefono, la radio, la televisione e poi oggi con l’esplosione dei “social”. Ogni volta la relazione tra di noi si è enormemente potenziata e arricchita; ogni volta ai lati positivi se ne sono accompagnati di contrari, aggressivi, disumanizzanti, sgraziati, volgari, truffaldini. Ma il tutto è cominciato con la parola: essa può salvarti la vita, oppure condannarla alla menzogna e alla catastrofe. Dimmi come parli e ti dirò chi sei: dobbiamo sempre partire di lì; il resto modifica il campo di gioco della relazione, ma la sostanza è all’origine».
L’Altro è diventato un potenziale veicolo di malattia e di morte. Più di prima l’Altro è un pericolo per la nostra sicurezza. Se prima della crisi alcuni discorsi politici rappresentavano l’Altro attraverso una determinata categoria umana (gli immigrati, le coppie gay, i tecnocrati, i cinesi etc.) quale minaccia rispetto al “nostro” lavoro, identità, tradizione, ora l’Altro è chiunque in quanto potenziale pericolo per la nostra vita. Come cambierà il nostro modo di interpretare il valore della vita umana e la comunità?
«Ha scritto Lévi-Strauss: la più grande sventura di un gruppo umano è di essere solo. Non siamo nessuno senza gli altri e del resto la vita di cui disponiamo è un flusso universale di cui noi siamo solo piccola parte. Ognuno di noi è un “condividuo”, come dicono Monti e Redi, nostri valenti biologi. Ospitiamo molti viventi e siamo una stratificazione di vite, inclusi i virus, quelli buoni e quelli cattivi. La pandemia dovrebbe insegnarlo a tutti: il mio interesse è che tu stia bene, che tu sia abbastanza soddisfatto e felice, perché la tua eventuale malattia diventa, prima o poi, un problema anche per me. Se la pandemia ci insegna questo, non sarà accaduta invano».
Dopo la crisi finanziaria del 2008 si sono affermate nel mondo forze politiche populiste, molte delle quali governano oggi Paesi duramente colpiti dal virus. Lei crede che la crisi sanitaria, economica ed esistenziale che stiamo vivendo creerà le condizioni per una conferma delle forze populiste fiorite dopo il 2008, provocando un ritorno in forza dei nazionalismi?
«Nel mondo in cui viviamo il nazionalismo tradizionale è un arcaismo e un non senso. Tuttavia la sua ragion d’essere ha molti fattori che lo tengono in vita. Anzitutto una cattiva conduzione della vita sociale planetaria, le violenze e le ingiustizie del mercato e della produzione industriale, che tra l’altro innescano le pressioni migratorie, e infine la presenza di cartelli internazionali di fatto sottratti a ogni controllo legislativo efficace. E poi ci sono coloro che speculano sulle paure e su ancestrali reazioni ostili allo straniero e fanno del nazionalismo il loro criminale tornaconto. Non sarà facile venirne a capo, anche perché, come si dice, nessuno è perfetto».
Durante questa crisi, qual è il compito della politica?
«Mi viene da dire: nel riuscire a dimenticare se stessa. La politica attuale, nel mondo economicamente avanzato, si regge, nel bene e nel male, sulla conquista del consenso. Non sto a ricordare tutte le storture, le menzogne, le astuzie criminali che ne derivano, aumentate enormemente dagli strumenti di comunicazione di massa. Questo è, in gran parte, fare politica oggi. Quindi anche approfittare della pandemia e dei terrori, dei dolori e dei problemi della gente per procurarsi potere. L’unica speranza è nella efficacia di voci responsabili e autorevoli che contrastino queste perversioni: per fortuna non mancano; degli effetti, vedremo».
Qual è il ruolo della filosofia al tempo della pandemia?
«Il ruolo della filosofia è sempre quello di promuovere la pace, esteriore e interiore. Tutta l’opera di Platone, tutto l’insegnamento socratico, da cui discendiamo come filosofi, ha questo fine. Ma nello stesso tempo sappiamo che non ci può essere pace senza giustizia, per questo motivo il ruolo critico della filosofia è il suo più grande contributo sociale. In tempo di pandemia, dobbiamo unirci ai nostri scienziati e ricordare a tutti che le catastrofi ecologiche prodotte da questo modello di sviluppo e dalla espansione insensata dell’abitare metropolitano sono alla base della presente sventura, ne ha già prodotte altre e altre, sicuramente più terribili, produrrà in futuro, se non si cambia registro.
«Inoltre, in questi giorni, la filosofia ha un compito ancora più specifico. Le necessità del presente obbligano a un ricorso senza precedenti ai mezzi di comunicazione telematici nei luoghi di istruzione e formazione: essi sono preziosi e svolgono funzioni importanti, anche indipendentemente dalla pandemia. Però, la formazione della parola viene prima ed esige la salvaguardia dei suoi spazi e tempi di condivisione personale. Come altri colleghi, in questi giorni sono intervenuto a porre il problema attuale della formazione. Informare è sempre possibile, formare è un’altra cosa. Essa esige la disponibilità di spazi e tempi condivisi, al fine di apprendere insieme l’arte di formare una comunità al lavoro, che rende sociale e socievole il proprio tempo e il proprio luogo. In una parola: imparare l’arte di diventare umani».