Cala vertiginosamente la concentrazione. Per questo cinema e web puntano sull’accelerazione. Ma più le immagini sono veloci e meno ricordiamo. Il direttore di Arté: «Il nostro tempo è diventato il fattore economico più prezioso»
gni secondo in più che trascorriamo sui social è denaro. Google ha determinato l’algoritmo della nostra attenzione: il tempo massimo di concentrazione di un millennial è di 9 secondi. Un secondo in più di un pesce rosso. Sulla base di questa proiezione, Google produce contenuti e stimoli per sfruttare il tempo che trascorriamo sul web e monetizzarlo. Schiavi del dio connessione, la nostra attenzione produce ricchezza, quella di Google. E una serie di patologie, le nostre.
Bruno Patino, direttore editoriale di ARTE e della scuola di giornalismo di SciencesPo Parigi, racconta gli effetti del mercato dell’attenzione in un interessante libro appena pubblicato in Francia “La civiltà del pesce rosso. Piccolo trattato sul mercato dell’attenzione” (Grasset). L’autore è un grande esperto del mondo digitale, di cui si occupa da più di vent’anni. La sua carriera inizia a Le Monde, come giornalista corrispondente dal Cile, seguono ruoli di direzione nelle più grandi aziende mediatiche francesi: la rivista Télérama, la radio France Culture e la tv di Stato France Télévisions (corrispondente alla nostra Rai). Tra tutti i media Patino preferisce la radio, perché, dice, «ha una magia che fatico a dimenticare, grazie alla voce, un mezzo di trasmissione meraviglioso».
Patino ci accoglie nel suo ufficio al quinto piano della sede di ARTE, la più grande industria culturale franco-tedesca, un canale televisivo di informazione e approfondimento fondato 30 anni fa grazie ad accordi diplomatici tra Francia e Germania per creare «la futura televisione culturale europea».
«Il mercato dell’attenzione», racconta il direttore, «è un concetto, economico e semplice, nato negli anni ’20 negli Stati Uniti, nel periodo in cui si sviluppavano i media audiovisivi, secondo il quale alcuni media vivono grazie alla pubblicità e per questo hanno bisogno di captare il tempo dell’attenzione delle persone, quello che Patrick Le Lay, ex direttore di TF1 (canale tv francese privato, ndr.) ha chiamato «il tempo di cervello umano disponibile». Ma il concetto di mercato rinvia innanzitutto all’economia. Patino descrive l’impressionante deriva del modello economico dell’attenzione, del quale è testimone. Osserva che «l’economia dell’attenzione ha subìto una grande mutazione nell’epoca digitale con l’imporsi delle grande piattaforme social, finanziate dalla pubblicità».
Questa mutazione ha provocato «gravi problemi individuali, in particolare problemi dell’attenzione e psicologici, ma anche collettivi». Non solo. «Sta cambiando la natura dello spazio pubblico, si è imposta una polarizzazione dei dibattiti pubblici e il dominio del regno dell’emozione nella nostra vita cognitiva e sociale».
Ma il mercato dell’attenzione non è un’invenzione dei giganti del Web. Prima che arrivassero Google &Co. si cercava di (in)trattenere le persone di fronte alla tv il più possibile per vendere loro pubblicità. Al tempo del digitale, invece, è tutto più semplice, illimitato, perché siamo tutti connessi permanentemente, sottolinea Patino. Ed è tutto molto più preciso, perché gli strumenti digitali permettono di conoscere e anticipare i comportamenti, il contesto in cui viviamo, attraverso “data” e mezzi coniati con l’ausilio delle neuroscienze. «Il vostro cellulare è attivo 24 ore su 24, il suo scopo è riuscire a catturare la vostra attenzione, anche quando avete deciso di fare altro. Mentre state facendo attività poco interessanti, come durante i trasporti o nelle file di attesa, ma anche più importanti: lo studio, il lavoro, la vita personale e sociale». Persino mentre dormiamo.
Il nostro desiderio compulsivo di sentirci circondati da uno “schermo protettore”, dove sviluppiamo la nostra esistenza digitale, ha infatti invaso anche il tempo del riposo. Mai troppo lontano dal cuscino, il cellulare rimane in standby pronto a riaccendersi nel cuore della notte, per controllare nuove notifiche. Accade ai “dormienti sentinella”, che evitano il sonno profondo per non perdere nessun segnale emesso dal cellulare.
Le patologie legate a questa dipendenza, e alla conseguente perdita della libertà, sono note e repertoriate. Patino ne elenca alcune: c’è la “nomofobia” (no mobile phone phobia), che consiste nell’essere colti dal panico di fronte all’allontanamento, anche temporaneo, del proprio cellulare; la “phubbing”, (contrazione di phone, cellulare, e snubbing, snobbare), la consultazione evidente dello smartphone di fronte a colleghi, amici, persone di famiglia mentre si parla, un riflesso diventato incosciente, «il midollo spinale ha preso il sopravvento sul cervello». Se è vero che «la società digitale assomiglia ad un popolo di drogati ipnotizzati dallo schermo», quello che spaventa di più è la fragilità mentale, finora sconosciuta, provocata da questa dipendenza. Nel libro si scoprono diversi disturbi, di cui si comincia lentamente a discutere anche in Europa, catalogati da un gruppo di esperti del “Near Future Laboratory”: la sindrome d’ansia, la schizofrenia di profilo, l’atazagorafobia e l’oscuramento. L’ansia più comune è quella legata al bisogno permanente di esporre i diversi momenti dell’esistenza, anche i più derisori, sui social: sarà il buon momento per postare? È questa la foto adatta? Quanti like avrò? E quante condivisioni?
Il timore è quello di sparire e di essere dimenticati dalla “comunità digitale”. L’atazagorafobico consulta il proprio cellulare di continuo alla ricerca di un like o di una condivisione e per assicurarsi di non essere un individuo entrato nell’oblio del gruppo. La frase di Sartre, «L’inferno sono gli altri», andrebbe riscritta: «Il nostro inferno quotidiano siamo noi stessi».
Anche Patino, però, ha creduto al sogno di un’umanità migliore come risultato dell’evoluzione digitale. «Mi sono occupato della creazione del sito lemonde.fr. Ho iniziato a lavorare nel settore digitale sei anni prima dell’arrivo di Facebook e ho assistito ad un’accelerazione tecnologica inedita. All’epoca si lavorava con una connessione 14K, ci voleva un minuto e mezzo per caricare l’homepage di Le Monde… ci chiedevamo se mettere delle foto, se bisognasse inserire l’attualità o meno, quante volte al giorno aggiornare la homepage». Quando parla di connessione 14K i suoi alunni della scuola di giornalismo lo guardano come fosse un mammut. «All’inizio mi sono detto: «È una novità tecnologica interessante». Poi «è una novità mediatica interessante». Poi «è una novità sociologica. Oggi tutti sappiamo che si tratta di una novità antropologica». Una novità che ha alterato i sogni. Come ricorda nel libro, i due principi fondamentali sui quali è nata la Rete erano l’accesso universale gratuito e la collaborazione di tutti gli utenti per migliorarla e farla crescere. L’utopia di «un’uguaglianza totale, associata a una libertà assoluta, per raggiungere la saggezza universale» si è ormai deteriorata. Trascinata da un impeto collettivo nato dalle passioni individuali, il web ha ceduto alla «superstruttura economica» nata dall’accumulazione.
Ma come sono riuscite le piattaforme ad attirarci? Il segreto è il tempo. Il tempo è diventato un prodotto raro, la risorsa più richiesta, sulla base della quale si è costruita la crescita economica attuale. Le piattaforme digitali hanno prodotto un’accelerazione diffusa nella produzione di contenuti per mantenere l’utente sullo schermo. I media audiovisivi e audio ne sono stati influenzati. «Guardi per esempio un certo cinema. Le scene di un blockbuster sono talmente rapide che non si ha quasi nemmeno il tempo di capire quello che si sono detti gli attori. Si passa immediatamente a un’altra scena, producendo una specie di effetto stroboscopico sulla retina. Come se non fossimo più capaci di guardare una scena estesa nel tempo. Diversi libri accorciano i capitoli, di 4 o 5 pagine, perché si pensa che un capitolo di 50 pagine non sia più leggibile. Con questa accelerazione viviamo un circolo vizioso: una capacità d’attenzione che diminuisce, e la produzione culturale che accelera, diminuendo ancora di più la nostra attenzione».
In questo contesto, la sfida di un canale come ARTE è grande: «Cerchiamo di ridare tempo e spazio alle persone, di sviluppare una sorta di sobrietà in un contesto di sovrabbondanza di segnali. Cerchiamo di promuovere racconti che richiedono tempo. E gli ascolti crescono».
Tuttavia, non è solo questione di tempo. L’economia dell’attenzione ha permesso di democratizzare l’economia del dubbio. Il business del dubbio oggi produce un profitto immediato. Patino cita un memorandum interno al sindacato patronale dell’industria del tabacco datato 1969: «Il nostro prodotto ormai è il dubbio. Perché il dubbio è il miglior modo di indebolire le idee che esistono nella testa dei consumatori».
Il dubbio produce domande, fa reagire, provoca uno shock emozionale e quindi moltiplica le azioni digitali, le condivisioni, i commenti. E poi è molto più facile ed economico produrre verosimiglianza, e quindi dubbi e credenze, che verità. «L’economia del dubbio ha creato un impero di credenze, e queste credenze sono il terreno dei complotti», aggiunge. «La realtà è un’esperienza. La solidarietà collettiva e il destino comune nascono dalla costruzione di un’esperienza condivisa». Ma perché quest’esperienza condivisa sia “libera”, bisogna rivedere le modalità e i tempi del consumo di social e altre piattaforme. Per esempio cominciando a diffondere una coscienza collettiva sulla necessità di un’autoregolazione dell’esperienza digitale. E poi avviare un cambiamento economico, senza necessariamente abbandonare Internet o fuggire dai social. Perché le patologie prodotte dalla schiavitù virtuale «non sono un prodotto tecnologico, ma il risultato del modello economico di alcune piattaforme digitali».
Se insomma Facebook, Twitter, Youtube trovassero nuovi modi di finanziamento, per esempio attraverso la sottoscrizione di un abbonamento da parte degli utenti, o attraverso la formula “no-profit” di Wikipedia, non funzionerebbero come oggi, ovvero non cercherebbero di catturare ogni secondo della nostra attenzione, perché la loro sopravvivenza non dipenderebbe più dal nostro tempo, ma dal nostro portafoglio. Il problema, oggi, è invece che il successo di molte applicazioni digitali dipende dal tempo che noi gli dedichiamo.