Francesca Schiavone è stata la prima tennista italiana a vincere sulla terra rossa di Parigi, poi ha sconfitto un tumore. Ora ha aperto un bistrot pubblicato un libro. E sogna un futuro da sommelier
DI ANNA BONALUME
Francesca Schiavone è la stella del tennis italiano. Nel 2010 è stata la prima giocatrice italiana a vincere un torneo del Grande Slam, il Roland Garros di Parigi. Dopo il ritiro, nel 2018, e un lungo silenzio, l’anno scorso in un video flash su Instagram annunciò di aver vinto la «lotta più dura in assoluto», quella contro il cancro. Nel post appariva visibilmente affaticata, il volto segnato dalla battaglia. Eppure l’entusiasmo straripante della campionessa che riempì d’orgoglio l’Italia traspariva dagli occhi.
«Lo sport è vita», dice oggi, e la “disperata vitalità” è anche il filo rosso che attraversa il suo primo libro, “La mia rinascita” (Mondadori), in cui, raggiunti i quarant’anni, racconta le sue strategie mentali e fisiche per vincere ogni ostacolo, le relazioni preziose con le donne della sua vita, il suo nuovo progetto: un bistrot sui Navigli e l’avventura del coaching. Da quando è guarita, l’atleta capisce ancora meglio il senso di ciò che ha sempre fatto: guardare avanti. Si racconta all’Espresso in una chiacchierata su Zoom dalla casa dei suoi genitori, a Milano, dalla camera da letto da cui tutto è cominciato, dove la madre ha lasciato i poster dei suoi trionfi appesi alle pareti.
In queste settimane continua a seguire le cure con grande disciplina, la stessa che le ha permesso di diventare il numero quattro della classifica mondiale in uno sport estremamente selettivo. «In questo momento stare a Milano non è facile, forse dovrei andarmene in Calabria per recuperare un po’ di tranquillità», dice accennando un sorriso. «Per chi ha avuto malattie come la mia c’è un rischio maggiore di prendere il virus». Il suo stato d’animo è contrastato: «Sono un po’ preoccupata ma nello stesso tempo ho voglia di vivere ogni attimo e ogni opportunità che la vita mi offre», aggiunge.
Cosa le ha permesso di rimanere concentrata durante la lotta, di superare la sensazione di annientamento dovuta alla malattia? «L’amore, quello per la mia famiglia e per la persona con la quale condivido la mia vita. L’amore è forza», sottolinea. Il suo libro è un omaggio ai genitori: «Mi hanno aiutata tanto, mi hanno trasmesso l’importanza di restare uniti e soprattutto il valore della disciplina. Da piccola mi dicevano sempre: “Prima studi, poi fai quello che vuoi, giochi, sei libera.” Mi avvertivano e poi mi lasciavano fare. Non so come abbiano fatto».
Una presenza-assenza, la loro, non facile da replicare: «Faccio molta fatica a insegnare gli stessi valori nei circoli di tennis dove lavoro come allenatrice. È davvero un’arte, una cosa speciale. Unire libertà e amore è difficilissimo. È complicato lasciar andare chi ami, perché vorresti avere tutto».
Nel libro, oltre alla mamma, anche lei malata di cancro, le donne sono figure importanti. A partire da quelle che lei chiama le “ragazze”, le campionesse italiane Pennetta, Vinci, Errani. Se per molte donne le peggiori nemiche sul lavoro sono proprio le persone dello stesso sesso, per Schiavone non è così: «Con le ragazze ho sempre avuto un normale rapporto tra colleghe. Quando giocavo ero molto competitiva, non concedevo spazio all’amicizia. Ma, nonostante questo, c’era tantissimo rispetto», sottolinea. «Appena potevo le schiacciavo, ma mai fuori dal campo. Le schiacciavo perché vincevo. C’era competizione, ma quando una era in difficoltà un’altra andava ad aiutarla, sempre. Forse sono stata fortunata. Quando dai tanto ricevi tanto, ma prendi pure belle mazzate».
La donna che l’ha accompagnata nella lotta è Sileni, compagna di vita e socia nel progetto del bistrot, sempre presente e pronta a regalarle un sorriso durante la malattia. «Io e Sileni abbiamo immaginato menù e letto libri, lei leggeva ad alta voce e io mi concentravo sulle parole del racconto». La differenza tra uomini e donne è che «l’uomo è più diretto, tende a semplificare. Gli uomini lasciano andare le cose molto più delle donne, noi invece siamo più emotive».
Eppure le differenze, anche nello sport, possono diventare una forza. Ad aprile Roger Federer, uno dei più grandi campioni di sempre, ha proposto la fusione tra i circuiti di tennis maschile (Atp) e femminile (Wta) che organizzano i tornei professionistici. «Oggi, nel tennis, il divario tra la remunerazione degli uomini e delle donne è abnorme. Più forza c’è, più soldi ci sono. Dunque possibilità di crescere, di investire in un team, in un allenatore, in un fisioterapista. L’unione fa la forza», dice Schiavone, che tuttavia sottolinea: «Non puoi chiedere a una donna di effettuare un servizio a 220 chilometri all’ora, come fa un uomo. E, viceversa, non puoi chiedere a un uomo di palleggiare per dare più spettacolo, perché ognuno ha le proprie qualità. Uniamo queste due cose: la nostra capacità di generare pubblicità, perché in tv e sul web le donne sono molto seguite, e le capacità degli uomini».
In effetti il gioco femminile attira di più. «È molto più bello a vedersi e questo è una calamita per la pubblicità», osserva la campionessa. «La lotta tra noi atlete è una lotta tra caratteri, non è un rapporto di forza. Le donne utilizzano gli angoli del campo perché per fare il punto devono trovare una soluzione intelligente, armoniosa. Gli sponsor, inoltre, sono attratti dal mondo femminile, dalla loro componente mentale e caratteriale. Le donne sono molto più comunicative e forti, sotto tanti punti di vista».
Unificare le istituzioni maschili e femminili porterebbe indubbi vantaggi in uno sport che, come Schiavone sottolinea, «non è per tutti, almeno all’inizio. L’investimento più grande a inizio carriera è l’impegno, i soldi poi si trovano». A differenza di altri sport come il calcio, per poter vivere di tennis a livello professionale bisogna far parte dei primi cento giocatori al mondo. Una competizione spietata.
Lo sport ha permesso a Schiavone di viaggiare molto. La cosa che l’ha colpita di più del suo primo viaggio negli Stati Uniti, nel 1993, è stato lo spazio. «I campi, le accademie, le palestre e gli hotel hanno a disposizione spazi infiniti. Oltre alle strutture, mi ha colpito vedere tanta gente interessata al tennis, allo sport in generale. Sono tornata a casa e ho detto a mio padre: “Portami in America!”. Lui ha capito e mi ha detto: “Non possiamo partire ora, ci andrai da sola”. E così è stato. Negli Stati Uniti vedevo infinite possibilità di farcela, tanta cultura dello sport, una cosa che in Italia manca».
Ora il nuovo match da giocare si chiama “Sifà”, che non è un partito politico ma un bistrot sui Navigli, a Milano, inaugurato in piena pandemia. Con il nuovo lockdown il successo è solo rimandato. «È un nuovo progetto che mi dà gioia, dove sperimentare il piacere di accogliere. Nel mio bistrot offro degustazioni di bruschette, formaggi, vini, tartare», prosegue la campionessa, che ha già tirato fuori dal cassetto il prossimo piano: «Un corso da sommelier: un mondo infinito, un impegno duro, sono ancora indietro. Per ora sorseggio e consiglio agli amici».
Per lanciare il bistrot la ex campionessa, abituata alla “macchina sempre in movimento del tennis”, si è scontrata con le lentezze della burocrazia e dei lavori. Un’attesa continua. «Chiedevo: “Oggi arriva l’elettricista?”, mi rispondevano: “No, oggi no, domani neanche”. Da giocatore professionista sei abituato ad avere la tua vita in mano: tutte le persone che ruotano intorno a te fanno in modo che la vita sia più produttiva e migliore possibile. Quando esci dal campo, invece, è tutto molto più tranquillo. I ritmi rallentano, devi assecondare le persone che ti circondano. Per me questo è incomprensibile».